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Mio! È mio!

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4 Giu

Mio! È mio!

Quanto è difficile la condivisione per i più piccoli? (Anche noi adulti non scherziamo, eh?!)

C’è una fase tra i 2 e i 3 anni nella quale i bambini si dimostrano iperpossessivi nei confronti di
cose, persone, spesso anche verso oggetti di altri che si trovano nella propria sfera di azione.
Spesso tale atteggiamento persiste nel tempo non sfumando del tutto negli anni successivi.
Quanti di noi genitori iniziano a chiedersi in questi anni “perché mio figlia/mia figlia è così?”,
passerà?”, “diventerà un adulto narcisista?”.

In realtà questa transizione – breve o lunga che sia – è fondamentale.
I bambini ci mostrano in questo modo di essere semplicemente alla ricerca della propria identità. Il
primo passo su una strada lunga e a tratti tortuosa…
Il loro bisogno di auto-riconoscimento passa proprio attraverso l’identificazione di sé con “le
cose” che d’abitudine utilizzano per il gioco, la pappa, la nanna. E anche con le figure di
riferimento che riempiono le loro giornate.

Come se questi oggetti del desiderio fossero un prolungamento della propria persona, i piccoli in
genere nella medesima fase manifestano uno spiccato senso di indipendenza e non vogliono
essere aiutati in attività come allacciarsi le scarpe, vestirsi, mangiare.
Alcuni ci mostrano un cipiglio adorabile nell’esclamare “Solo!”, “Sola!” che spesso fa sorridere per
la carica di forza e concentrazione messa in campo ‘nel fare’ in autonomia.

Il possesso rappresenta dunque una fase essenziale nello sviluppo cognitivo infantile prima
dell’approdo alla relazione con l’altro. Prima di arrivare a comprendere che il proprio non è l’unico
mondo possibile, ma che anche gli altri possono avere desideri, bisogni e necessità differenti dai
propri, possono passare davvero molti anni.

Come aiutare i più piccoli e accompagnarli alla condivisione?

Da genitori, a volte, il solo fatto di riconoscere che si tratta di un passaggio temporaneo della
crescita, in qualche modo una tappa obbligata, ci aiuta ad adottare un atteggiamento equilibrato.
Non sgridare i bambini, ma imparare a gestire le manifestazioni forti connesse al possesso come il
pianto, la rabbia e i capricci interminabili, con pazienza e accoglienza, è già un grande traguardo.

Mostrarsi gentili e adottare comportamenti di collaborazione serena e genuina tra genitori stessi, dentro e fuori casa, darà l’esempio pratico ai nostri figli di ciò che significa condividere. Ad
esempio chiedere il permesso prima di utilizzare oggetti dell’altro, ringraziarsi a vicenda, sono
tutti piccoli accorgimenti che aiutano a fare esperienza diretta del significato dei legami rispettosi
da parte dei piccoli.

Inoltre, iniziare già a coinvolgere i bimbi in attività familiari di vita pratica come aiutarci a spostare
piccoli oggetti quotidiani, apparecchiare la tavola, mettere a posto assieme i giocattoli, ha una valenza fondamentale nello sviluppo emotivo e affina la sensazione nei piccoli nell’essere parte di
un tutto e non il centro assoluto dell’attenzione.
Piccole responsabilità quotidiane aiutano a raggiungere un proprio piccolo personale equilibrio
tra l’io e l’altro, non alimentando l’egocentrismo infantile ma mantenendo una relazione positiva e
reciproca con il mondo circostante.

E poi, naturalmente, il magico potere del gioco collettivo!
Creare occasioni di incontro e gioco con altri bambini seguendo con attenzione le dinamiche
comportamentali senza intervenire subito ad ogni momento di frustrazione, ma lasciando modo ai
piccoli di trovare gradualmente il proprio equilibrio con gli altri e di fare esperienza dell’attesa,
della negoziazione e della pazienza prima di riottenere il proprio gioco o avere l’ok per usare
quello di un altro.

A volte un buon escamotage può essere quello di scegliere assieme dei giocattoli da tenere per sé,
distinti da quelli da condividere con gli altri, magari perché alcuni giochi sono maggiormente legati
all’emotività e i piccoli ne sono più affezionati.

Ricordiamoci sempre che condivisione fa rima con empatia e accoglienza.

Accompagniamo i bambini sin da subito a immaginare l’altro non come uno strumento del nostro bisogno o desiderio, ma attivamente come una parte “altra” di noi da rispettare e di cui aver cura in egual misura.

 

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